il campeggio
A dodici anni si ha il diritto di essere ancora bambini e potersi trastullare con i giochi preferiti, ma non per tutti è così. Almeno non lo è stato per i bambini della mia generazione, che hanno vissuto l’esperienza del dopoguerra.
Al rientro dai luoghi dove eravamo stati sfollati trovammo solo macerie. C’era l’urgenza della ricostruzione, la necessità di rimboccarsi le maniche, di smettere di giocare per collaborare in famiglia come meglio si poteva. Non che lavorassimo dalla mattina alla sera, lo spazio per qualche gioco riuscivamo ancora a trovarlo, ma eravamo stati caricati troppo presto di un senso di responsabilità che ci aveva fatto accantonare la spensieratezza della prima infanzia. Insomma eravamo dei bambini adulti.
Per quanto mi riguarda fu con l’arrivo di alcuni responsabili del Touring Club Italiano, interessati al terreno sul quale sorgeva la nostra casa, che io, inconsapevolmente, dissi addio alla mia fanciullezza.
Negli anni ’30 mio padre aveva ereditato pochi metri quadrati di vigna, quasi in riva al mare. Tutta la zona era coltivata a vigneto ma lui, non potendo curare il suo pezzo poiché, per non emigrare in America, aveva scelto di imbarcarsi nella Regia Marina, vi aveva piantato dei pini, lasciandoli crescere da soli. Fu proprio la pinetina, che nel 1952, fu scovata dai signori del TCI che ci proposero di attrezzarla a campeggio, l’unico campeggio, ci informarono, tra Roma e Napoli. Ma cos’era un campeggio?
Lo avrei scoperto ben presto perché a 12 anni, tanti ne avevo nell’estate del ’52, invece di correre al mare con le mie coetanee che arrivavano dalla città, mi ritrovai a montare la guardia alle tende dei campeggiatori. Questa cautela si rendeva necessaria per evitare che i bagnanti, che andavano al mare, si intrufolassero in quelle strane casette di stoffa. Niente di più facile perché il campeggio non aveva un recinto. In verità, quando iniziammo, il campeggio era sprovvisto di tutto, anche di un WC. La zona era talmente isolata che bastava allontanarsi pochi metri dalla tenda e nascondersi dietro una duna per poter soddisfare i propri bisogni.
Ben presto cominciarono ad arrivare Tedeschi e Francesi e, così, iniziò il mio approccio con le lingue straniere. All’inizio fu un gioco di mimica più che di parole. Non dimenticherò mai un signore tedesco il quale, per farci capire che voleva delle uova, fu costretto ad accovacciarsi e fare coccodè, perché con le parole non riusciva nell’intento. In quella occasione, però, imparai la prima parola tedesca. Quanti ricordi in tanti anni di campeggio!
Famosa la pastasciutta preparata da alcuni Finlandesi, arrivati con un pullman. Due pentole messe su due fornelli, una con acqua fredda e pasta e l’altra con acqua e una scatola di conserva, lasciate lì a bollire incustodite. Inutile dire che a fine cottura gli spaghetti erano diventati una poltiglia biancastra. Venne servita con il ramaiolo e condita con una cucchiaiata abbondante di quel sugo al pomodoro e, ciliegina sulla torta, aggiunsero anche un tantino di marmellata. Mi invitarono a mangiare con loro ma non ebbi il coraggio di accettare.
La necessità dei campeggiatori di comunicare con me nasceva dall’esigenza di comperare qualcosa da mangiare, non potendolo fare in autonomia poiché la zona era ancora priva anche del più piccolo abbozzo di negozio. Avevano bisogno di pane, di patate, di burro. Chiedevano a me come fare per andare a comperarli e io, trovando più difficile fornire le indicazioni per raggiungere i negozi che andare di persona, inforcavo una vecchia bicicletta da uomo, una Bianchi nera per la precisione, che di nero non aveva più niente e, infilandomi sottocanna, contorcendomi per mantenere l’equilibrio e sperando che non saltasse la catena ormai troppo lenta, pedalavo alla ricerca di quello che mi avevano chiesto. Tornavo con la sporta della spesa carica di provviste.
Mi rendevo conto che non potevo sottrarmi a questa incombenza e studiai una soluzione. Un giorno mi venne in mente che avrei potuto organizzarmi meglio per evitare le continue missioni alimentari. Così pensai di fare scorta di viveri, almeno di quelli che si conservavano più a lungo.
Ogni mattina calcolavo quanto pane potesse servire per una giornata e lo comperavo tutto in una volta . Cominciai anche a vendere i prodotti del nostro orto, specialmente patate e frutta. Insomma, feci nascere il primo negozio stagionale. Pian piano si sviluppò fino a diventare un negozio vero, gestito da una ragazzina che nel frattempo aveva compiuto quindici anni. Fu in quegli anni che arrivò anche il primo frigorifero. Non uno di quelli elettrici ma una cella frigorifera che andava a ghiaccio. La mattina passava un camioncino a tre ruote, tipo Ape, e ci lasciava delle colonne di ghiaccio che, sistemate nella cella, tenevano fresco il latte e il burro per tutta la giornata. Era questo il sistema di refrigerazione, in alternativa al paniere attaccato a una corda e infilato nel pozzo, sistema usatissimo in campagna per tenere freschi il cocomero e il vino.
Il mare, pur tanto vicino, era un bene che, ormai, noi ragazzini del paese avevamo ceduto ai villeggianti. Noi lavoravamo tutti durante l’estate.
Consapevole di non essere la sola ad aver fatto la grande rinuncia, avevo accettato la nuova condizione senza protestare, neanche dentro di me. Avevo cominciato con la guardia alle tende e stavo imparando a gestirmi la vita.
Rinunciando alla spensieratezza della fanciullezza avevo contribuito allo sforzo di tutta la famiglia, per un avvenire più tranquillo. Un’ esperienza durata più di 15 anni.
In quel campeggio ho trascorso le mie estati. Lavoravo lì da marzo a ottobre, sette giorni alla settimana, dalla mattina alla sera ininterrottamente… e non conoscevo la noia e il male di vivere.
8 giugno 2004
marica riccardelli
via c. colombo 177
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