Da ragazzina abitavo vicino al mare, in un luogo allora sperduto dove il silenzio veniva rotto soltanto dalla risacca delle onde.
Le uniche “anime” che si vedevano durante la giornata erano quelle dei pescatori e delle loro donne che, quasi ogni mattina, ripetevano l’atavico rito: gli uomini lasciavano le barche dopo una nottata di pesca e risalivano in fretta il viottolo sabbioso per andarsene a dormire; le donne, invece, caricatesi in testa le spaselle contenenti il pescato ancora vivo, ritornavano a passo lento in paese e cercavano di vendere la merce lungo il cammino, lanciando il loro caratteristico richiamo.
Il resto era silenzio.
L’unica scappatoia che mi permetteva di incontrarmi con i miei coetanei era la scuola.
Il desiderio di stare in compagnia era talmente forte che vedevo di malocchio la domenica e le vacanze più lunghe. I periodi di isolamento erano, comunque, sempre troppo lunghi e passavo molto tempo a guardare il mare o a leggere tutto ciò che mi capitava tra le mani, anche pezzi di libri trovati per caso tra le macerie di case distrutte dalla guerra. I tempi erano difficili e bisognava organizzarsi lavorando anche di fantasia. Anche la decisione di andare a vivere a pochi passi dal mare era stata dettata dalla necessità di avere un tetto sulla testa visto che la guerra, finita da poco, aveva distrutto tutto in paese.
A gran fatica avevamo tirato su la nostra casa, pietra su pietra. Una casa fatta in economia e senza nessuna approvazione edilizia, con molto materiale recuperato dalle macerie della casa preesistente, a cominciare dalle mattonelle per i pavimenti. Molte famiglie si erano ritrovate nelle nostre stesse condizioni perché i tempi non avevano risparmiato nessuno e tutti cercavamo di riorganizzare la nostra vita con la collaborazione dei membri della famiglia.
Noi cominciammo scavando una grossa buca per sciogliervi le pietre di calce viva. L’acqua bisognava attingerla dal pozzo il che comportava un notevole sforzo. Mio padre aveva preso a giornata un muratore ma tutta la famiglia aveva dovuto svolgere lavori di manovalanza, dandoci il cambio.
Mettemmo in piedi 4 stanze, un bagno e una cucina. Per mancanza di soldi due stanze le tenemmo, per qualche tempo, con le finestre murate, senza pavimento e senza intonaco. Di acqua in casa, inizialmente, neanche a parlarne. Ci rifornivamo dal solito pozzo, che distava almeno una ventina di metri, servendoci di un secchio e di una carrucola cigolante, il cui acuto stridore si diffondeva tutto intorno a testimonianza della fatica che si stava compiendo. Poi mio padre studiò un meccanismo di pompe e tubi che permise di spingere l’acqua fino alla soglia di casa e potemmo, agevolmente, farne rifornimento. Smettemmo di andare avanti e indietro con i secchi, che in quei venti metri perdevano metà del carico, specialmente quando eravamo io o mia sorella a portarli, lasciando una scia umida lungo tutto il percorso.
Le due stanze praticabili, durante l’estate, le affittavamo a dei villeggianti che già prima della guerra erano soliti frequentare la zona. Noi di famiglia ci rifugiavamo in quelle senza finestre e senza pavimento. Il bagno si usava in comune, la cucina anche ma, per me, i disagi sparivano di fronte alla felicità di avere in casa due ragazzine della mia età con le quali potevo giocare, correre, saltare e andare al mare.
Andavamo insieme sulla spiaggia e lì incontravamo altre persone.
Si distinguevano subito i villeggianti dai paesani. Non soltanto per la maggiore spigliatezza dei primi ma anche per il sistema diverso di ripararsi dai cocenti raggi del sole. I villeggianti avevano dei grossi ombrelloni infilati nella sabbia e anche delle sedie su cui sdraiarsi. I paesani, invece, creavano il loro cono d’ombra conficcando nella sabbia quattro canne, disponendole a forma di quadrato, alla sommità delle quali legavano un pezzo di tela, per lo più un lenzuolo ormai abbastanza liso, e quello era il loro rifugio.
Ci tuffavamo nell’acqua, allora limpida, e tra un tuffo e l’altro tiravamo sempre su quei costumi di lana che, impregnandosi d’acqua, diventavano pesantissimi e scendevano oltre misura. Di un costume di ricambio neanche a parlarne e bisognava stendersi al sole in attesa che la lana si asciugasse prima di potersi rimettere in moto. Si rideva di gusto quando qualche donna anziana si tuffava con un camicione, così usavano le paesane di una certa età, che dapprima si gonfiava come un paracadute e poi si appiccicava addosso lasciando intravedere, in trasparenza, più di quanto il costume di lana avrebbe mostrato e che, per pudore, non veniva indossato.
Ripensandoci oggi mi rendo conto che, all’epoca, i disagi erano tanti ma, per me, non era importante non avere l’acqua in casa e vivere per due mesi senza finestre. Ciò che mi rendeva felice era vedere il viso delle mie coetanee nel quale potermi specchiare. Era talmente forte il desiderio di comunicare che, nei due mesi estivi, vivevo come in un’estasi. Tutto mi dava gioia. Tutto assumeva il sapore di una fiaba; anche un semplice falò per bruciare gli aghi dei pini che circondavano la casa mi elettrizzava e lo vivevo come un momento fantastico che la vita mi donava.
Dal mio volto traspariva un concentrato di gioia di vivere, della quale facevo rifornimento per cibarmene, a piccole dosi durante l’inverno, sotto forma di ricordi.
In quella mia infanzia fatta di rinunce, mi bastava la compagnia di una coetanea per essere felice, e questo accadeva d’estate.
30 maggio 2004
marica riccardelli
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