le “fasciatore”

Elvira si era svegliata da poco, non sazia di sonno, e stiracchiandosi sperava di poter recuperare in fretta il vigore necessario per affrontare un’altra lunga e faticosa giornata. Tre bambine da allevare erano un bel lavoro, considerato anche che la più piccola era appena nata e richiedeva molto impegno. Abbandonato a malincuore il letto caldo e, riponendo tra le speranze future quella voglia di dormire che la accompagnava da quando, a ventuno anni, aveva avuto la prima bambina, si diede da fare per accendere il fuoco.
Non era un’impresa facile ma lei aveva imparato dalla mamma a non far mai consumare completamente la brace la sera prima e, prima di andare a dormire, la copriva con della cenere perché durante la notte non bruciasse completamente, spegnendosi.
Al mattino bastava smuoverla un po’ e rianimare il fuoco con qualche filo di paglia, aggiungendo poi altra legna o carbone.
Dopo qualche tentativo malriuscito, che fece riempire di fumo la cucina, Elvira riuscì a far brillare una bella fiamma nel camino. Mise un pentolone, annerito dal fumo, su un treppiedi per scaldare l’acqua che sarebbe servita a lavare Gabriella, così si chiamava l’ultima nata. Appena sveglia bisognava sfasciarla [1] e lavarla. L’acqua doveva essere tiepida al punto giusto.
Elvira aveva provveduto la sera prima a riempire due cannate [2] d’acqua attingendola alla fontana pubblica. L’acqua in casa era un lusso che, in paese, neanche i signorotti potevano permettersi nell’immediato dopoguerra, a causa delle tubature colpite dai bombardamenti.
I tempi che si stavano vivendo non erano rosei per nessuno, neanche per i neonati che si trovavano ad affrontare le prime difficoltà della vita, come se il mondo volesse far capire loro, immediatamente, di essere capitati in una valle di lacrime e, quindi, abituarli all’asprezza dell’esistenza.
E così Elvira, giovane mamma in tempi difficili, come aveva fatto con le altre due figlie, Valeria e Nicoletta, ogni mattina ripeteva il rituale della tortura di Gabriella.
Tolte le fasce, nelle quali era stata avvolta la sera, prima di addormentarsi, Gabriella riceveva il suo bagnetto e subito dopo, senza perdere tempo, veniva sistemata in panni puliti.
Alla fine dell’operazione la bambina, come tutti gli altri neonati, sembrava un salamino e non poteva essere diversamente, visto che la mamma la avvolgeva in una quantità di panni necessaria a ricevere le minzioni della bambina per parecchie ore. L’ultima operazione di questa tortura, perpetrata fino all’avvento dei triangoli e dei ciripà che finalmente permisero ai bambini di tenere le gambe libere, consisteva nel posizionare le gambette della bambina l’una accostata all’altra il più possibile, avvolgerla strettamente in un panno di lino a forma quadrata, ripiegarlo al fondo rispettando la lunghezza della povera vittima e fermare il tutto con lunghe fasce girate e rigirate intorno a quel malcapitato corpicino che, senza pietà, era costretto a starsene imbalsamato giorno e notte.
Così si usava all’epoca e le fasce erano l’unico sistema usato per i piccolissimi; i tempi dei morbidi e sempre asciutti Pampers era ancora lontani.
I suddetti panni di lino, tessuti in casa, necessitavano di parecchi lavaggi prima di perdere la loro ruvidezza e rappresentavano un vero supplizio che sarebbe durato almeno fino al compimento del terzo o quarto mese di vita del fantolino. Più fortunati erano i secondi figli perché usavano i panni “addomesticati” dai fratelli maggiori.
C’era l’illusione da parte di tutti che, così facendo, i bimbi sarebbero venuti con le gambe dritte come fusi ma, osservando il prodotto in circolazione, il risultato ottenuto era ben lontano dalle aspettative. L’unica cosa certa era che il bimbo prendeva aria solo due volte al giorno, al massimo tre: la mattina, la sera e qualche volta a mezzogiorno. Se il bimbo non sincronizzava le urgenze fisiologiche con il tempo della sfasciatura, o poco prima, se ne stava nel suo humus per tutto il giorno o per tutta la notte.
Uno dei motivi che non permetteva di cambiare i bimbi spesso dipendeva dalla difficoltà di lavare i panni, visto che non si aveva l’acqua in casa e, per farlo, bisognava andare al lavatoio pubblico o al fiume.
Il lavatoio pubblico era sempre occupato dalle lavandaie di mestiere e il fiume era abbastanza distante dal paese e non ci si poteva andare con facilità. Non esistendo ancora le lavatrici, le lavandaie erano molto richieste e non riuscivano a soddisfare i bisogni di tutti con celerità.
Il fiume era lungo ma le lavandaie si fermavano sempre allo stesso punto, là dove c’erano delle grosse pietre, quasi dei massi, che avevano la parte superiore ben levigata, non solo dal continuo fluire dell’acqua ma anche dall’abituale strofinio dei panni. Era un quadretto caratteristico, ognuna china sulla sua pietra, tutte impegnate a cantare insieme, mentre tuffavano i panni nell’acqua, li insaponavano con pezzi di sapone fatto in casa e li battevano vigorosamente sulle pietre. Dopo aver lavato e sciacquato, stendevano i panni al sole, sui cespugli, e aspettavano che si asciugassero per poterli ritirare. Prima di deporli nella cesta li stiravano con le mani, quando ancora erano leggermente umidi, li piegavano e poi, con la cesta in testa, se ne tornavano al paese.
Allora era molto facile vedere le donne portare pesi sulla testa. Trasportavano tutto in quel modo e per proteggersi si munivano di una sparra[3]
Le donne erano talmente abili a trasportare pesi sulla testa che neanche si preoccupavano di reggerli mentre camminavano. Finché trasportavano un canestro, non ci si meravigliava di vederle tanto disinvolte ma, quando portavano una cannata piena d’acqua, dritta sul capo, mentre avanzavano veloci, senza farla cadere, ci si domandava da dove nascesse tanta abilità. Le meno esperte, invece, si aiutavano con una mano per tenere in equilibrio il peso trasportato.
Non di rado, in qualche canestro viaggiante c’era un bambino, perché a quei tempi, epoca in cui non esistevano i Pampers, la povera gente non poteva permettersi neanche il lusso di una carrozzina e si arrangiava come meglio poteva.
Elvira guardava la montagna di panni da lavare e sognava un futuro più facile mentre riduceva Gabriella come un salamino.

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[1] liberarla dalle fasce

[2] recipiente per acqua a forma di anfora

[3] termine dialettale per indicare il cercine. Una sorta di protezione fatta di stoffa, prima arrotolata su se stessa, come se si dovesse strizzare e poi chiusa a forma di ciambella da mettere in testa e sulla quale poggiare il peso.

marica riccardelli
via c. colombo 177
04026 m. di minturno (LT)

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