settembre 1943: la guerra è in casa
“Presto, nascondiamoci!” grida Francesca a Elena e Matilde intente a giocare ad acchiapparello sullo spiazzo sabbioso davanti casa, a “Monte d’Argento”.
Anche se ovattato dalla distanza il rombo degli aerei, che s’infiltra nell’abituale silenzio di quella tranquilla zona di mare, è facilmente riconoscibile.
Ben presto il rumore diventa più distinto. Francesca afferra per mano le bambine e le trascina verso il nascondiglio più vicino.
“Presto, giù, e non vi muovete!”
“Mamma, ma così ci sporchiamo” piagnucola Elena “io in questo fosso non ci voglio stare!”
“Zitta e accovacciati!” le grida la mamma.
Matilde non parla, a lei non importa se il vestito si sporca, osserva la mamma e cerca di capire il suo strano comportamento. Stenta a credere che voglia giocare a nascondino con loro, non lo ha mai fatto. In genere è sempre impegnata a lavare, cucinare, sferruzzare, chiacchierare, e poi loro due si sono sempre organizzate bene da sole.
“Uffa, mamma, ma perché?” continua Elena a cicalare, mentre cerca la posizione meno scomoda, come se dovesse rimanere in quel fosso chissà per quanto.
Stanno lì, accovacciate, illudendosi di essere protette da un tralcio di vite che penzola sotto il peso di due grappoli d’ uva, quasi pronta per la vendemmia.
Francesca appoggia le braccia sulle loro spalle e le stringe a sé, per essere sicura che non si alzino. Tace e, con il fiato sospeso, osserva gli aerei ormai visibili.
La paura è tanta. Soltanto il giorno prima, sulla vicina Gaeta sono piovute bombe come grandine. Non si sa bene quanti danni abbiano fatto perché le notizie, in paese, arrivano con difficoltà ma le bombe, dai paesi circostanti, tutti le hanno viste mentre cadevano e non ci vuole molta fantasia per immaginare che abbiano lasciato morte e distruzione.
Non si capisce più niente di quello che sta succedendo. Una delle stranezze è che non è stata proclamata la fine della guerra ma, in giro, si vedono sempre più frequentemente soldati allo sbando, che tornano a casa, senza divisa e abbastanza provati. Non si sa cosa aspettarsi.
Il rombo ormai è forte.
-Che faranno?
-A chi toccherà questa volta?
“Gesù mio!” bisbiglia Francesca mentre segue con lo sguardo la traiettoria degli aerei.
“Che belli! Come brillano! Che sono quei cosi luccicanti che scendono, mamma?” chiede Elena.
Francesca non risponde, guarda le bombe che riflettono il sole mentre precipitano, appena a distanza di sicurezza dal loro nascondiglio. Un breve lasso di tempo e un boato si spande, fragoroso, investendo Monte d’Argento, tutta la piana e i paesi appollaiati sulle colline circostanti. Una nuvola grigia si alza dalla zona colpita che, da come può valutare Francesca, è proprio dietro Monte d’Argento, nella zona denominata “gl’attu degli morte”[1] e abbastanza vicina alla foce del Garigliano.
Gli aerei si allontanano alleggerendo ulteriormente il loro carico durante il ritorno.
Passato il pericolo escono dal fosso.
Sgomenta, con un gesto meccanico, Francesca scuote dei fili d’erba secca dai suoi vestiti e da quelli delle bambine. Senza perdere altro tempo, le prende per mano e si affretta a rientrare in paese. Ha la mente in subbuglio.
Il pensiero corre a sua madre, Maria Civita, che dovrebbe essere in campagna, a “Pontone”, quindi da tutt’altra parte rispetto alla zona colpita. Istintivamente corre con la mente anche al marito, Augusto, anche se non è in paese perché imbarcato sulla corazzata Italia[3]. Si sofferma a pensare ad alcuni paesani, quelli che di solito lavorano i campi proprio vicino al Garigliano e le si stringe il cuore all’idea che qualcuno possa essersi trovato lì, al momento del bombardamento. Spera ardentemente che non ci siano vittime ma ha un brutto presentimento. Si aggrappa alla speranza che non sia successo nulla di irreparabile.
“Ch’è successo, ma’?” chiede Elena vedendo l’espressione preoccupata della mamma.
“Ch’è successo, ma’?” fa eco Matilde, come sempre.
“Hanno bombardato.”
“Bombardato?”
“Sì”
“Quei cosi luccicanti erano bombe?”
“Sì”
“E perché hanno bombardato?” continua Elena.
“La guerra!” risponde Francesca laconica.
Elena, pur non avendo affatto le idee chiare, non indaga oltre; percepisce lo stato d’animo della mamma e ammutolisce. Ha già sentito parlare di guerra ma, a sei anni, non sa cosa sia realmente. Sa soltanto che di guerra si muore, come si muore di tifo, di tubercolosi e di tante altre malattie che sente sempre nominare. Sa che il nonno, Enrico, è morto “di” guerra, quando aveva appena ventotto anni. Glielo ha raccontato tante volte la nonna ma lei non riesce ad associare questa parola alle bombe che ha appena visto e alla preoccupazione della mamma.
“Mammà, che è la guerra?” chiede Matilde incuriosita.
“Zitta tu, che sei piccola e non capisci!” l’apostrofa Elena “la guerra è una cosa che fa morire, capito? E’ pericolosa!” continua, assumendo con la sorella l’aria compiaciuta di chi ne sa di più.
Francesca le lascia dire, il suo pensiero è impegnato diversamente.
Si affrettano a tornare a casa, percorrendo Viale P. Fedele e Via Simonelli fino al bivio per Castelforte, a un’andatura sostenuta. Dal bivio, per non fare il giro lungo, prendono la scorciatoia, la “Zi’ Nicolina” anche se abbastanza ripida. Matilde, che ha sempre preteso di andare in braccio a qualcuno tutte le volte che si è affrontata quella scorciatoia, ora si arrampica come una capretta su per quella salita piena di grossi ciottoli che rendono faticoso il cammino. Ha capito che è successo qualcosa di insolito e dimentica perfino di avere paura di Mario, il muto, quando passano davanti alla sua casa. Pur avendo il fiatone fanno l’ultima salita, quella che sbuca alle spalle della chiesa dell’Annunziata, e arrivano nella piazza omonima.
Si uniscono al gruppetto di donne che si è raccolto lì a discutere sull’accaduto e Francesca chiede cosa sia successo veramente.
“Me dicete ch’è succeso?” chiede Francesca “Do’ hanno bombardato? E’ mòrto caccheruno?”
“De sicuro non sapemo ancora niènte ma che paura ce semo messa!” risponde una di loro “Hanno bombardato a Gragliano, proprio vicinu alla terra de Biasio e ‘na bomba è caruta ‘ncoppa alla casa de Rosaria.”
“Poverella. E che gli è succeso?” chiede Francesca.
“N’o sapemo ancora, Catarina è iuta a spià’. E po’ hanno bombardato puru agliu cimiteru”
“Gesù! Gesù!” commenta Giuseppella, anche lei arrivata in quel momento “hanno bombardato gliu cimiteru? Maronna aiutece, manco gli morte stanno chiù bone!”
“E tu stai a penza’ agli morte?” risponde Francesca “meno male che se l’hanno pigliata co’ issi. Era meglio si se la pigliavono co gli vivi?”
“No, no” si difende Giuseppella “sulo ca ‘nce sta chiù crianza pe’ niènte.”
Mentre chiacchierano di queste cose torna Caterina, così vengono a sapere che Rosaria, al momento del bombardamento non era in casa perché impegnata nel suo lavoro di lavandaia. In casa, invece, doveva trovarsi Luigino, il primogenito di Rosaria, la quale – sempre dal racconto di Caterina – in quel momento sta correndo verso casa.
“Mamamia! Poverella, e mò?” commentano le altre “‘iamo a vede’ se gli serve caccosa, ‘iamoce puru nui, n’a lassamo sola.”
“Aspettate nu momento che porto le criature alla casa” dice Francesca “e vengo puru i’”
E tutte, signore e pacchiane[7], mani ai fianchi e passo svelto, con le larghe gonne che svolazzano al ritmo del loro passo, corrono da Rosaria che trovano, piangente, davanti ai resti della sua casa. Il fabbricato è sventrato. Appaiono alla vista testimonianze di una vita di stenti. Le sue povere cose, improvvisamente esposte alla luce del giorno, si mostrano in tutta la loro irriducibile miseria ma Rosaria ha ben altro a cui pensare che preoccuparsi della sua intimità violata; cerca Luigino ed è sconvolta al pensiero che il figlio possa trovarsi sotto quelle macerie.
“Mamamiaaa! come faacciooo!” Rosaria piange e comincia a spostare i calcinacci con le mani “Luigì, rispunni a maaaama!”
Francecsa, Caterina e Giuseppella le stanno intorno e tentano di confortarla e aiutarla.
Rosaria, addolorata, si porta le mani ai capelli e si china ripetutamente come una penitente che chiede perdono al Signore. Vedendosi impotente di fronte alla massa di calcinacci si dispera.
“Mammà! Sto ‘ccà! Sto bono!” a porre fine alla disperazione giunge la voce di Luigino che spunta di corsa da un viottolo che scende dal paese.
“Figliu miuuuu! Maronna de Pompeiiii!” Rosaria, incredula, lancia un grido di gioia mentre, in lacrime e con le braccia protese, corre verso il figlio, che si affretta per abbracciarla
“I’sto bono, ma agliu cimiteru so’ morte Giuvanni e Pascale, gli figli de Vittorio.”
“Ma che stai a dice!” esclama Caterina e scoppia a piangere, seguita da Francesca e Giusappella.
“Figliu mio, begliu de mama!” Rosaria abbraccia e bacia Luigino, con foga, per lo scampato pericolo. Lo stringe a sé come per proteggerlo da altri pericoli.
E’ ancora troppo scossa per la paura avuta al pensiero che suo figlio potesse essere rimasto sotto le macerie e non riesce a partecipare, con la stessa commozione delle altre donne, al dolore per la morte dei due ragazzi. Si sente quasi in colpa nei loro confronti, che al contrario di Luigino, sono stati meno fortunati. Un brivido le corre lungo la schiena. Ora che vede i suoi tre figli tutti salvi, vuole restare da sola a piangere le sue disgrazie. A quelle degli altri, anche se più gravi, si dedicherà più tardi.
Francesca, Caterina e le altre donne non sanno che fare. Riescono solo a dire parole di circostanza, nel tentativo di consolare Rosaria. Alla fine Caterina decide per tutte:
“Rosa’, nui ‘iamo nu momento a vede’ ch’è succeso ddavero alla casa de chigli dui vagliuni e po’ venemo nata vota ‘cca! Fatte trovà, ‘ca te ne ve’ co’ me e stanotte dormete a casa mia.”
“E chi se move da ‘cca, figlia bella!” dice Rosaria in lacrime.
Così, come sono arrivate, se ne vanno, pronte a percorrere a piedi la distanza abbastanza ragguardevole che separa la casa di Rosaria da quella di Giovanni e Pasquale. Mentre camminano non sanno a cosa pensare. Si sentono alquanto inutili e smettono anche di parlare. Vogliono verificare quanto ci sia di vero nella notizia appresa da Luigino, sperando che il ragazzo abbia capito male. In fondo sarebbe possibile, vista la situazione di confusione generale.
Luigino, però, non si è sbagliato. Quando arrivano in prossimità della casa dei due sventurati vedono mezzo paese riunito lì, il che non lascia spazio a dubbi sulla sorte dei due fratelli. Due vittime di guerra da aggiungere all’elenco dei giovani minturnesi caduti per la patria, anche se in modo meno glorioso.
Non morti “in cielo, in terra o in mare” ma morti “in casa”. Due di quelle vittime che non compariranno in nessuna stele commemorativa ma che fanno parte della grande moltitudine di vittime civili, la perdita delle quali, alle persone care, fa male quanto la morte in azioni di guerra.
Il sentire esplodere le bombe sulla loro testa ha fatto vacillare la certezza del tanto osannato “Vincere… e vinceremo” anche nei cuori più devoti, e invece si prende coscienza che la guerra in casa è guerra vera.
[1] “Dalla parte dei morti” è la spiaggia sulla quale le acque del Garigliano, con un gioco di correnti, spingono tutte le carogne e i tronchi di alberi che raccolgono durante il percorso.
[2] Il paese è Minturno, sulla collina, a circa tre chilometri dal mare.
[3] Ex-Littorio
[7] La distinzione tra signora e pacchiana veniva fatta in base agli abiti che le donne indossavano. Nel 1943 molte contadine ancora vestivano i panni del costume paesano, cioè “la pacchiana”. Naturalmente esisteva l’abito festivo e quello giornaliero. Quest’ultimo cosisteva in una gonna ampia e un corpetto non elaborato, proprio come vestivano Caterina e Giuseppella, mentre l’abito festivo era molto elaborato. Quando una donna decideva di non indossare più i panni della pacchiana e si convertiva agli abiti comunemente usati nel resto d’Italia, si diceva che si era vestita da signora. Poggiare le mani sui fianchi, quando non lavoravano, era un’abitudine forse derivante anche dal fatto che non avevano una borsetta da portare. Generalmente trasportavano qualsiasi cosa caricandolo sulla testa.
marica riccardelli
via c. colombo 177
04026 m. di minturno (LT)